Storie di Famiglia 8


Frau Kohl

Nel suo mondo casuale e confuso bisogna stare in agguato per raccogliere un po' di quello che è accaduto. Bisogna credergli ed interpretare. La storia gli viene fuori così un po' per caso come in un vecchio circuito elettrico pieno di fili scoperti e rugginosi. Di tanto in tanto, per una ragione quasi mai prevedibile due fili fanno contatto e una scintilla si accende.

“È grosso.” commentò mia madre guardando l'uomo impettito nel suo impermeabile sbatacchiato dal vento. Commentò in dialetto come si fa di un compaesano ingrassato di colpo. In effetti il cancelliere tedesco Helmut Kohl faceva la figura del colosso al fianco del nostro presidente Sandro Pertini di una ventina di centimetri più minuto e almeno una cinquantina di chili di distanza. Visita ufficiale. Mio padre guarda il picchetto d'onore, soldati tedeschi impettiti e rispettosi. Ci sono le bandiere, la fanfara. Mio padre non ha mai avuto paura di ammettere una certa ammirazione per la secca efficienza tedesca. Una ammirazione sincera per l'assenza di dubbi, per le linee perfettamente diritte, per la meccanica che non perdona. Mi chiedo, maligno, se questa sua ammirazione per l'efficienza potrebbe giustificare, almeno in parte il burocrate dello sterminio Adolf Eichman che processato a Gerusalemme per l'ottimizzazione della soluzione finale ebbe quasi a compiacersi della sua efficienza. No, mi dico, non lo avrebbe giustificato. Mio padre è un brav'uomo.


“Kohl, Come Frau Kohl” attaccò mio padre. Secondo il suo personale Pantheon della “prigionìa” Frau Kohl, amministratrice del Casino militare occupa un posto del tutto speciale. Solida, cortese e materna si era presa sotto l'ala chioccia quel piccolo italiano che sgambettava senza sosta. Mio padre era arrivato come un profugo denutrito e sottomesso. La notte sognava di mangiare. Sognava di sgranocchiate polli, uno dopo l'altro. Poi smise anche di sognare. Una fetta di pane al giorno non sarebbe bastata a quello stomaco abituato alle sostanziose delizie della madre. Divenne apatico, debole.

Niente da mangiare, niente da mangiare. Poi un medico polacco di cui si è perso il nome, mentre lo visita, gli fa scivolare delle pillole nella mano. Sono vitamine gli dice, se non ce la fai neanche con queste non c'è altra speranza. Le pillole sono tre. Così si sopravviveva in quel tempo. Un piccolo colpo di fortuna, un proiettile che scoppia dietro un muro che resiste, una scheggia che taglia in due l'aria senza neppure sfiorare, una casa che crolla un minuto prima, nella strada. Un soldato ubriaco che crolla addormentato sul suo fucile prima di scambiarti per un ebreo. Una malattia che passa. Un medico polacco che ti da speranza. È probabile che quelle pillole fossero semplicemente zucchero. Erano solo piene della speranza che quel corpo giovane potesse passare un'altra notte. Così si sopravviveva. Si cadeva dalla parte giusta dallo spartiacque per tre pillole di zucchero. E poi arrivò la famiglia Kohl e lo spartiacque si fece più spesso, più alto, un'argine. Mio padre fu destinato come cameriere e sguattero in un casino militare dove venivano gli ufficiali del fronte orientale in licenza. Un piccolo paradiso affondato nella foresta alle porte di Dresden, Sassonia.

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