Venanzio, prenda il caffé




Mio padre nutre una particolare forma di razzismo. Per lui il mondo è diviso nettamente in due razze che non possono entrare in contatto: quelli come noi e quelli che non sono come noi. Il suo pregiudizio non ha niente a che fare con la razza, la religione, la provenienza geografica. Nella sua vita ha collezionato amici calabresi, russi, magiari, musulmani. Il suo razzismo è comportamentale: se sei una persona discreta, non invadente, amante della buona cucina, rispettosa dell'altrui diritto di stare nel proprio angolo allora sei "come noi". L'eccessiva ambizione, l'estroversione chiassosa, l'invasione dello spazio fisico con effusioni non richieste ti condanna al gruppo degli indesiderabili. Niente di sorpendente: siamo piemontesi da seicento anni.

Di noi piemontesi si dice che siamo freddi, incapaci di esprimere sentimenti sinceri (piemontese falso e cortese), estranei ad una umanità schietta e semplice. Eppure Torino la nostra città capoluogo esprime un fascino a cui pochi sanno resistere.

Lo spirito di ritrosia del mondo sabaudo lo si percepisce bene nel documentario Venanzio Revolt che Vincenzo Greco, Marta Evangelisti e Fabrizio Dividi hanno dedicato ai primi ottanta anni di Lorenzo Ventavoli, esercente produttore sceneggiatore (per truffa come dice lui) attore deus ex-machina del cinema torinese e nazionale. Ventavoli è una di quelle personalità attorno alle quali si sedimenta la storia: Pastrone, Bergman, Buñuel, Truffaut, Woody Allen, le sale storiche nelle quali diverse generazioni di torinesi hanno consolidato il loro amore per il cinema, senza il quale non avremmo un Torino Film Festival, il Museo Nazionale del Cinema tanto per citare due esempi di rilevanza internazionale.

La scelta dei tre autori di raccontare questa storia è stata la più piemontese che si potesse immaginare: Ventavoli è a casa, a tavola, a chiacchierare con un altro nome della complessa mitologia torinese: Steve Della Casa. Non un'intervista, non un'agiografia non un'apologia e neppure una spasmodica ricerca di una verità ultima. Una chiacchiera. Un flusso di ricordi con ritmo da post-Barolo chinato, da vedere a notte tarda nella quale l'avventurosa vita di un cinematografaro del dopoguerra diventa una passeggiata tra amici.

La storia si srotola con un understatement struggente tanto che a volte si rischia di perdere qualche dettaglio che ha semplicemente fatto la storia del cinema. Ma cosa importa? L'esistenza di "quelli come noi" è fatta di storie tranquille, mai sopra le righe, anche se stai recitando una poesia ad Hanna Schygulla, anche se stai facendo entrare al cinema Cesare Pavese o stai facendo scoprire a Woody Allen, a casa tua, il cinema yiddish.

Quelli "come noi" sono fatti così: quando raccontano lo fanno sotto voce e soltanto a "quelli come noi"

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